Sinonimi che non lo sono: migrante, profugo e rifugiato

Il seguente articolo, come pure i precedenti, si fonda su un concetto inequivocabile: le espressioni che adoperiamo non sono meno importanti del contenuto che intendiamo veicolare. Questo vale sempre, ma vale soprattutto per chi ha deciso di fare del linguaggio il proprio mestiere. Lo dimostra la nascita, negli anni, di diversi codici deontologici rivolti ai giornalisti (qui scrissi della Carta di Roma), codici volti a tutelare specifiche categorie di attori sociali – in genere, i più vulnerabili, ossia coloro che detengono uno scarso potere sociale e politico. Il concetto di democrazia, in epoca moderna, si è evoluto proprio in questo senso: garantire la tutela delle minoranze.
Se dunque riconosciamo al linguaggio questo valore, dovremo di pari passo convincerci che il lessico ha un proprio peso specifico, e che (senza scomodare Moretti) è necessario quantomeno interrogarsi sulle sfumature di senso che occorrono tra un termine e l’altro. 

Man mano che la questione immigrazione con il passare del tempo è andata complicandosi, anche il suo dizionario si è esteso e arricchito di nuovi lemmi: sono così state introdotte nuove relazioni, nuove sinonimie, spesso improprie
Migrante, profugo e rifugiato non sono sinonimi, nonostante vengano impiegati – quasi sempre – come se fossero tra loro interscambiabili. Questa sovrapposizione, evidentemente, trascura l’identità delle persone coinvolte, e ne svaluta l’esperienza. 

Tre definizioni. Migrante è un termine puramente generico. Indica chi sceglie di allontanarsi dal proprio paese per stabilirsi in un altro, anche per un periodo di tempo limitato. Tale decisione, in questo caso, è di natura volontaria; nella maggior parte dei casi, è dettata dal desiderio legittimo di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro. 

La parola profugo, invece, sta a segnalare (anche qui, in maniera del tutto generica) colui che ha deciso di abbandonare il paese di origine in seguito a catastrofi naturali, guerre, o persecuzioni.

Definire qualcuno come rifugiato, al contrario, significa investirlo di tutt’altra connotazione. Il rifugiato è “colui che è costretto a lasciare il proprio paese a causa di conflitti armati o di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. A differenza del migrante, egli non ha scelta: non può tornare nel proprio paese perché teme di subire persecuzioni o per la sua stessa vita”. Il termine fa immediato riferimento a una definizione legale ben distinta, e a precise misure di protezione stabilite dal diritto internazionale. Questa categoria di individui, una volta attraversati i confini internazionali, viene riconosciuta come “bisognosa di assistenza da parte degli Stati, dell’UNHCR e delle organizzazioni competenti”. Il rifiuto della domanda d’asilo, per costoro, può avere conseguenze mortali. Lo status di rifugiato, inoltre, non decade nel momento in cui chi ne è insignito si trasferisce in un paese diverso da quello che lo aveva accolto in prima istanza. “Una persona che soddisfi i criteri per lo status di rifugiato rimane un rifugiato, a prescindere dalla rotta particolare lungo cui si sposta in cerca di protezione o di opportunità per ricostruire la propria vita, e a prescindere dalle varie tappe in cui si articola questa ricerca”.

Gli effetti. Profugo e migrante, quindi, sono etichette assai diffuse, ma assolutamente vaghe. Soprattutto la prima, semanticamente accostabile al più comune sfollato, non corrisponde a uno status riconosciuto. Questa sua indeterminatezza connaturata ha contribuito a usi distorti e – nei casi peggiori – discriminatori: non è raro che alcune testate la adoperino addirittura come sinonimo di clandestino. Come se ciò non bastasse, la Carta di Roma ha segnalato l’incremento (dal 2016) dell’uso del termine profugo per riferirsi ai rei; un dato degno di attenzione, se si pensa agli altri modi in cui la stampa mainstream descrive gli immigrati accusati di aver commesso un reato – mediante la nazione d’origine, o enfatizzandone l’irregolarità. 
Come chiarisce l’UNHCR, non distinguere queste tre definizioni (migrante, rifugiato e profugo) “distoglie l’attenzione dalle specifiche misure di tutela legale che richiedono i rifugiati. Tra queste, la protezione dal refoulement (respingimento) e dalla penalizzazione per aver attraversato frontiere senza autorizzazione in cerca di sicurezza. Non esiste alcun tipo di illegalità nel richiedere asilo – al contrario, è un diritto umano universale. Usare indistintamente i termini rifugiati e migranti può compromettere il sostegno pubblico a favore dei rifugiati e l’istituzione dell’asilo, in tempi in cui, più che mai, i rifugiati hanno bisogno di tutela”.

Il testo è frutto della rielaborazione di un paragrafo della mia tesi di laurea magistrale, intitolata "Analisi linguistica dell'informazione in tema di immigrazione (quotidiani online, pagine Facebook e commenti)".
Serena D'Angelo
serenadangelo93@gmail.com
Instagram/Facebook: @sfocature

4 commenti:

  1. Ciao, non ci conosciamo! Articolo molto interessante... seguo sempre la tua rubrica, bravissima continua così

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