Il silenzio


Come in tutte le cose, ciò che si sceglie di non dire ha un peso rilevante nella comunicazione. Il silenzio agisce nel campo dei soggetti in gioco, ha un suo spazio, un suo valore; anche l’assenza può contribuire alla costruzione di un sentire.

Una bibliografia

Uso questo spazio per condividere una serie di letture che ho trovato edificanti e su cui poggia larga parte della mia formazione - e, di conseguenza, quasi tutto quello che viene scritto su questo blog. Il post rimarrà in continuo aggiornamento.

Sinonimi che non lo sono: migrante, profugo e rifugiato

Il seguente articolo, come pure i precedenti, si fonda su un concetto inequivocabile: le espressioni che adoperiamo non sono meno importanti del contenuto che intendiamo veicolare. Questo vale sempre, ma vale soprattutto per chi ha deciso di fare del linguaggio il proprio mestiere. Lo dimostra la nascita, negli anni, di diversi codici deontologici rivolti ai giornalisti (qui scrissi della Carta di Roma), codici volti a tutelare specifiche categorie di attori sociali – in genere, i più vulnerabili, ossia coloro che detengono uno scarso potere sociale e politico. Il concetto di democrazia, in epoca moderna, si è evoluto proprio in questo senso: garantire la tutela delle minoranze.
Se dunque riconosciamo al linguaggio questo valore, dovremo di pari passo convincerci che il lessico ha un proprio peso specifico, e che (senza scomodare Moretti) è necessario quantomeno interrogarsi sulle sfumature di senso che occorrono tra un termine e l’altro. 

Decostruire la retorica allarmistica: l'emergenza "prevedibile"


La parola “emergenza” riecheggia da anni nelle cronache nazionali (e non). Le pratiche giornalistiche tendono comunemente a inglobare ogni notizia in un macro-tono apprensivo, allarmistico; ciò avviene perché questo tipo di intonazione – a quanto pare – risulta più efficace nel tentativo di coinvolgere il lettore

La parola "clandestino"


Il migrante irregolare è colui il quale:

“a) ha fatto ingresso eludendo i controlli di frontiera; 
b) è entrato regolarmente nel paese di destinazione, ad esempio con un visto turistico, e vi è rimasto dopo la scadenza del visto d’ingresso (diventando un cosiddetto ‘overstayer’); o 
c) non ha lasciato il territorio del paese di destinazione a seguito di un provvedimento di allontanamento”[1].

L’appartenente a questa categoria viene spesso – e impropriamente, a detta dell’Associazione Carta di Roma e dell’UNHCR – bollato con il termine di “clandestino”: