Decostruire la retorica allarmistica: l'emergenza "prevedibile"


La parola “emergenza” riecheggia da anni nelle cronache nazionali (e non). Le pratiche giornalistiche tendono comunemente a inglobare ogni notizia in un macro-tono apprensivo, allarmistico; ciò avviene perché questo tipo di intonazione – a quanto pare – risulta più efficace nel tentativo di coinvolgere il lettore

Ciclicamente, si torna a parlare della crisi della stampa: il sistema informativo ha quindi la necessità di comunicare in una maniera che funzioni, se intende sopravvivere. Negli ultimi anni, però, sono mutati gli spazi del giornalismo. O meglio, se ne sono aggiunti di nuovi. Sempre più italiani trascurano l’informazione cartacea, benché nel contempo si spostino sulle piattaforme online delle testate e sui Social Network Sites. Facebook su tutti. 

Spazi diversi implicano finalità diverse. Per quanto riguarda il cartaceo e l’online, l’obiettivo è lampante: indurre il lettore a comprare il giornale, o a leggere un determinato articolo. Quando però ci troviamo su un Social Network, dobbiamo essere consapevoli che l’obiettivo delle testate è anche incrementare i propri livelli di engagement: in poche parole, esse devono stimolare nel lettore (che ora è utente) una reazione, o un commento

Quindi, se un tempo l’obiettivo del giornalismo mainstream era semplicemente quello di attirare la nostra attenzione, ora invece siamo anche chiamati ad agire. E nulla è più efficace del sentimento del pericolo per risvegliare in noi una risposta, che a sua volta si traduce in interesse, emozione, o in un gesto. Tuttavia, se ciò risultava vero ancor prima dell’avvento dei Social Network, ora questa dinamica va esasperandosi. 

Qui entra in gioco il tema dell’emergenza. 

Ogni fenomeno, potenzialmente, ha le carte in regola per costituire il tassello di un fenomeno più grande e, ovviamente, più pericoloso. L’immigrazione si presta particolarmente bene a questo equivoco perché è una questione complessa, ricca di sfaccettature, tra le quali pochi sanno orientarsi.

Ma procediamo con ordine, e iniziamo consultando il dizionario. Che cosa significa la parola “emergenza”?

“Circostanza imprevista, accidente. […] Sull’esempio dell’ingl. emergency, particolare condizione di cose, momento critico, che richiede un intervento immediato, soprattutto nella locuzione stato di emergenza (espressione peraltro priva di un preciso significato giuridico nell’ordinamento italiano, che, in situazioni di tal genere, prevede invece lo stato di pericolo pubblico). […] Nel linguaggio giornalistico (seguito da un sost.), situazione di estrema pericolosità pubblica, tale da richiedere l’adozione di interventi eccezionali: e. droga; e. mafia; e. occupazione. […] Improvvisa difficoltà, situazione che impone di intervenire rapidamente […]. Circostanza imprevista, caso grave, urgente […]. Situazione critica, di grave pericolo”.

L’immigrazione non è un fenomeno recente, né imprevisto, e non comporta alcun pericolo per l’ordine pubblico. Ciò nonostante, i giornali si servono del termine “emergenza” (o del termine “allarme”) quasi come prassi. Spesso, l’espressione “emergenza immigrazione” si è cristallizzata in un TAG all’interno dei siti dei quotidiani. L’esito che ne deriva è a mio parere ben illustrato da Federico Faloppa in Razzisti a parole (per tacer dei fatti): qui egli scrive, infatti, di un’emergenza che è finita col diventare “prevedibile”, e che ha perso ogni connotazione sensazionale in favore di un senso diluito di inquietudine costante


Il racconto dell’emergenza, poi, si serve anche di parole espressive, evocative, quando non metaforiche. Parole che contribuiscono alla cementificazione, nella percezione popolare, dell’immagine di un fenomeno inarrestabile, impossibile da arginare, e in grado di paralizzare il Paese. Tra queste, il più noto è il termine “ondata”, in cui è racchiuso il senso di un flusso incontrollabile, instabile, dagli incerti contorni umani, poiché più vicino a una connotazione naturalistica. “Invasione” è un’altra parola che mira a descrivere – senza fondamento – i supposti “effetti” del fenomeno.

Solo se si considera l’immigrazione dal punto di vista dei suoi dati concreti, è possibile comprendere la trascuratezza e la pericolosità che risiedono in questa abitudine linguistica, che travisa numeri e qualità degli arrivi e delle permanenze, e cela a fatica un atteggiamento verbale discriminatorio, quando non razzista. Ognuno di questi vocaboli, oltre a non rispecchiare la realtà, ha l’effetto di nascondere i volti di chi questa realtà compone, annulla cioè la soggettività del migrante, oltre a inserirlo in un contesto di senso negativo, minaccioso.

Ovviamente, concorre a quest’ansia generale anche la gigantesca sovraesposizione mediatica che ha riguardato la questione in tutti questi anni. E, a mio modesto parere, è inutile pubblicare una volta all’anno un articolo che dica “L’emergenza non esiste” se poi ogni giorno, puntualmente, si adottano termini e toni che lasciano presagire il peggio.

Ma non è solo il racconto. Ad aggravare la situazione vi è il fatto che le classi politiche e le istituzioni – da anni – affrontino l’immigrazione con il medesimo atteggiamento. E assistiamo quotidianamente ai risultati di queste scelte. 

Basterebbe modificare la lente, restringere il campo. Iniziare a discutere delle vere urgenze. Anche se, ed è triste ammetterlo, mi riesce a fatica immaginare il giorno in cui i giornali più popolari inizieranno a riportare in prima pagina titoli come “Emergenza torture”, o “Emergenza morti nel Mediterraneo”

Il testo è frutto della rielaborazione di un paragrafo della mia tesi di laurea magistrale, dal titolo "Analisi linguistica dell'informazione in tema di immigrazione (quotidiani online, pagine Facebook e commenti)".



Serena D'Angelo
serenadangelo93@gmail.com
Instagram/Facebook: @sfocature

Nessun commento:

Posta un commento