Come in tutte le
cose, ciò che si sceglie di non dire ha
un peso rilevante nella comunicazione. Il silenzio agisce nel campo dei soggetti
in gioco, ha un suo spazio, un suo valore; anche l’assenza può contribuire alla
costruzione di un sentire.
Per motivi di spazi
e tempi, sarebbe certamente impossibile per i media mainstream coprire ogni giorno ogni singolo tema o fatto di qualche
rilevanza. È la prima cosa che mi venne insegnata da un buffo giornalista
improvvisatosi docente durante il secondo anno della triennale:
«Occorre decidere
cosa è una notizia, e cosa non lo è.»
Il sistema
informativo viaggia ormai a una velocità frenetica, che il mercato gli impone,
ed è quindi comprensibile che esso non sappia conciliare la vendibilità con l’esaustività.
Quest’ultima considerazione (sarà bene specificarlo) è volutamente “ingenua”,
e poggia su un assunto che purtroppo non è sempre valido: ossia la fiducia nel
fatto che la maggior parte dei quotidiani e dei luoghi di informazione in
genere non abbia la possibilità di trattare alcuni argomenti, a causa di
quello spazio e di quel tempo di cui parlavo poco più sopra. Ma è anche vero – senza
voler scadere in complottismi di sorta – che talune voci spesso operano una
scelta di comodo, di convenienza, quando non una scelta politica. Anche di ciò bisogna essere consci.
È il momento di
tirar fuori dal cilindro della banalità la questione dell’agenda setting. Mi
perdonino gli addetti ai lavori per il breve e indegno riassunto che mi accingo
ad allestire per quanti non abbiano dimestichezza con questa teoria.
Vi è una teoria,
nel campo degli studi sulla comunicazione, per cui esisterebbero tre tipi di “agende”:
- l’agenda dei media, ovvero tutte le informazioni che essi veicolano e che indicano a noi di cosa tener conto;
- l’agenda del pubblico, ovvero ciò che al pubblico interessa;
- infine, l’agenda politica, in base alla quale i dirigenti politici elaborano i propri discorsi e le leggi.
I fautori della
teoria dell’agenda setting (questo il nome) sostengono che le suddette tre categorie
interagiscano tra loro, delineando un processo che consta di altrettante fasi:
- i media riportano determinate “notizie” piuttosto che altre, e così facendo stabiliscono la propria agenda;
- in un secondo momento, questa si relaziona con l’agenda del pubblico, che tende a dare importanza alle tematiche che i media mettono in primo piano;
- dal canto suo, la classe politica affronta e discute ciò che più è caro agli elettori in quel dato istante.
Nessuno di questi
tre poli detiene in sé un potere di influenza assoluto, e gli effetti di
ciascuno si riversano secondo modalità diverse e secondo diversi coefficienti. Tuttavia
vi è un dettaglio – probabilmente scontato, ma comunque essenziale – che le
ricerche confermano: maggiore è l’incompetenza del pubblico nei confronti di un
certo tema, maggiore sarà l’influenza esercitata dai media rispetto alla
costruzione della percezione attorno a quel tema.
E non è proprio
quella la fascia di utenza verso cui il giornalismo detiene un carico di responsabilità determinante?
Mi ricollego ora ai
paragrafi iniziali. Finora, nei contenuti da me prodotti su questo blog e altrove, ho sempre evidenziato
le imprecisioni e le storture di un certo linguaggio. La teoria dell’agenda
setting permette però di capire anche il forte e decisivo ruolo del silenzio
quando si fa informazione. La qualità del sistema giornalistico si può
ricostruire e determinare anche in base ai dati mancanti, alle notizie non date,
a ciò che non viene detto, a ciò che non viene mostrato.
La narrazione mediale
mainstream del fenomeno immigrazione, in questo senso, è ricolma di vuoti, di buchi,
di strade raramente battute. La cronaca di questi anni, anche quando il
discorso era sovraffollato e saturo, ha certamente riservato uno spazio non
degno a molte sfaccettature della questione; mi riferisco in particolare a:
- i corridoi umanitari;
- i modi di vivere, di integrarsi e di contribuire all’economia di un Paese che vedono rifugiati e richiedenti protagonisti;
- la voce dei soggetti interessati.
Il primo passo
sarebbe appunto lasciar spazio a questi ultimi, per raccontarsi e smettere di
essere semplicemente raccontati. Questa, beninteso, è una consuetudine bipartisan
che non caratterizza un solo schieramento politico, ma coinvolge tutti, in
maniera indiscriminata. Emerge in sostanza una tenace resistenza a cedere il
microfono, a convincerci che i diretti interessati sappiano parlare di loro
stessi meglio di quanto è nelle nostre facoltà.
È difficile raccontare
qualcosa di vastissimo e complesso come l’immigrazione in modo esauriente. Ma quella
di giornalista non è una professione qualunque: al contrario, possiede connotazioni
e sfumature che imporrebbero quantomeno l’impegno, il rendersi conto del carico
di responsabilità che sovrasta la tastiera. A questa presa di consapevolezza
dovrebbe poi seguire l’azione, la modifica di alcune abitudini narrative che
hanno contribuito allo stagnamento del modo di rappresentare l’immigrazione e i
suoi attori. Ciò che servirebbe è un’integrazione consistente di temi e voci,
un arricchimento del discorso pubblico.
Grazie al lavoro
culturale di tante e tanti, in questi anni stiamo imparando a indignarci quando
vediamo che seduti attorno al tavolo vi sono solo uomini. L’occhio pubblico si
sta via via abituando a notare le contraddizioni di genere, perché qualcuno lo
sta educando affinché questo avvenga. Lo stesso processo di educazione e di
focalizzazione può essere applicato anche all’immigrazione: non basta concentrarsi
sulle inesattezze e le menzogne, ma bisognerebbe imparare a esigere la massima
completezza possibile, nei temi e nei modi. Bisognerebbe, sopra ogni cosa,
abdicare alla propria figura di narratori onniscienti e lasciare i dovuti spazi
di espressione alle storie di uomini e donne, e dar loro voce, quindi un volto
e una dignità.
Il testo è frutto della rielaborazione di un paragrafo della mia tesi di laurea magistrale, intitolata "Analisi linguistica dell'informazione in tema di immigrazione (quotidiani online, pagine Facebook e commenti)".
Il testo è frutto della rielaborazione di un paragrafo della mia tesi di laurea magistrale, intitolata "Analisi linguistica dell'informazione in tema di immigrazione (quotidiani online, pagine Facebook e commenti)".
Serena D'Angelo
serenadangelo93@gmail.com
Instagram/Facebook: @sfocature
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