Una premessa

A un certo punto, ho semplicemente smesso di leggere i giornali. Isolarsi è stato più semplice di quello che pensavo, perché nessuno attorno a me parlava più di niente. Altre volte, tutt'al più, ascoltavo frammenti di discorsi che non capivo. Qualcuno rideva per una frase letta su Twitter. Poi ci sono state le elezioni. Era marzo, e io già non c’ero più.

Mattarella stringe la mano a Conte nel giorno del Giuramento. Fonte: Ansa.
Nella piccola provincia in cui sono cresciuta, la lotta politica mi è stata insegnata come una sconfitta, come una presa di coscienza dell’inefficacia del metodo. Nello stesso tempo, per quanti divennero poi i miei maestri, esisteva l'idea di un prodigarsi che non necessitava di troppe motivazioni. Fare politica per costoro era parte della definizione della loro stessa persona. Come una virtù, o meglio, come un vizio. Come la donna che ama il suo compagno anche quando lui non torna la sera, anche quando conosce la verità delle sue mancanze eppure gliele perdona, come si assolve in chiesa, con il beneficio del dubbio.

Ai tempi non mi chiedevo la causa di tanta ostinazione, perché non la riconoscevo come tale, bensì in ogni azione io leggevo il naturale corso degli eventi. C’è da fare, si farà. Eppure sento di aver assimilato quella sensazione sorda del “dopo”, di cui oggi mi sembra che tutti loro si nutrissero, incondizionatamente. Io sento ancora il tacito senso di quiete immobile, come il silenzio in estate, che seguiva ogni impegno. La città tutto chiedeva agli uomini, e tutto rubava ad essi, lasciandoli stanchi ma non privi di forze, consci che ogni gesto non sarebbe stato l’ultimo. Ciò che contava, infatti, era proprio quel gesto; la pulsione, il desiderio di misurarsi. Era di assoluta necessità compiere un atto, per modificare, per evolvere, per gridare.


Ecco ciò che mi è stato insegnato: la necessità del gesto politico, il bisogno di una risposta alternativa, la curiosità di ciò che accade nel momento in cui si vive. E poi, cosa di primaria importanza, ogni istinto individuale era associato alla necessità pratica di campire questa pulsione con la comunità e i suoi bisogni. Non si fa politica per se stessi.


Crescendo, ho visto molti perdere questo impulso, e ho capito fosse prevalsa in loro l’ombra di quello che sembrava un destino già deciso. Eppure, avevo conservato quella definizione ancestrale di politica. Il concetto quasi mitologico del bene comune


Però nel frattempo le cose si muovevano. I miei maestri invecchiavano, e le facce mutavano. Nuove grida affollavano l'aria, mentre in contemporanea il nostro volume si faceva sempre più basso. Avevo ereditato la sconfitta di quelli che erano venuti prima di me, e insieme a essa avevo ereditato il loro silenzio.


Quel silenzio ci ha ingabbiato. Ci sentivamo talmente diversi da quelle facce da non capire che ci vivevamo in mezzo. Abbiamo riso dei loro strafalcioni, li abbiamo giudicati impreparati e abbiamo ironizzato sulle loro proposte. Abbiamo riso dei loro elettori.


Poi abbiamo permesso che un esercito di razzisti apparisse tutti i giorni, più volte al giorno, nei programmi tv, nelle radio, e che la sua propaganda fosse urlata quotidianamente su ogni giornale. Abbiamo permesso che il sistema di informazione legittimasse queste persone – talvolta per “dovere di cronaca”, talvolta per audience, talvolta per riderne.


Eravamo indignati (probabilmente lo eravamo) ma lo abbiamo permesso ugualmente. Qualcuno di noi diceva, speriamo che ce la facciano, così crolleranno definitivamente. Perché, in fondo, noialtri non avevamo più nessuna battaglia da perdere ancora.


Nel frattempo, i linguaggi di tutti si facevano simili. Il vocabolario si assottigliava ogni giorno. Ogni giorno, perdevamo qualche parola. Le battaglie erano diventate tutte simili tra loro, la realtà sociale perdeva colore, e in mezzo c'eravamo noialtri, e nessuno di voi parlava con noi. Nessuno di voi parlava con me.

Il senatore del PD Faraone durante la votazione per il Decreto Sicurezza. Fonte: rollingstones.it
Io non c’ero mai nei vostri discorsi. Guardavo le vostre campagne sponsorizzate su Facebook, le vostre infografiche, ascoltavo i vostri lunghi discorsi, così lenti, così tristi, e capivo di non rientrare nel target. Per mesi, per anni, non ho fatto altro che ascoltare qualcuno che non stava parlando con me. 

Al punto che, alla fine, ho smesso di ascoltare. Ho smesso di leggere. Ho, semplicemente, smesso.


Questo post annacquato e prolisso è per me, oggi, una dichiarazione di intenti. Ho deciso di disfarmi della mia eredità, e di rinunciare al suo peso. Rinuncio alle sconfitte altrui, per sobbarcarmi la responsabilità del mio silenzio.


Da oggi, approfitterò dei miei spazi virtuali per occuparmi di linguaggio, delle sue potenzialità e di come esso può modificare la realtà. Di come la narrazione si fa slogan, lo slogan si fa legge, e la legge si fa vita. In tanti anni di studi, il tema primario per me è stato e sarà quello della migrazione e dei suoi protagonisti. Perché sono convinta (nella maniera più laica possibile, senza paternalismi beceri, senza occhi lucidi) che alla base della definizione di una società vi sia il modo in cui essa tratta i più fragili.


Quali strumenti essa metta a disposizione delle categorie svantaggiate per restituire loro dignità e autonomia. Quanto spazio lasci a costoro per raccontarsi - invece che esser sempre raccontati da terzi. Come riesca quindi a liberarli dal giogo della necessità eterna.


Se è vero che la mia formazione ha un valore, oggi - più che in passato - è necessario impiegarla in questo senso. Per quanto frustrante e tedioso possa rivelarsi, mi riapproprio del Gesto, dell'impegno, mi riapproprio della parola.


C'è da fare, si farà.



Serena D'Angelo
serenadangelo93@gmail.com
Instagram/Facebook: @sfocature

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